E’ finita un’epoca. L’epoca della Cupola e della struttura sovraterritoriale che ha governato la Cosanostra dei corleonesi e che è stata alla base della strategia stragista negli anni Novanta.
E’ quanto emerso nel rapporto dell’ultima Relazione Semestrale della Dia che ha anche rilevato come “alcuni mandamenti siano contrari alla ricostituzione di un vertice centrale dell’organizzazione, in particolare sulla cosiddetta Commissione provinciale a Palermo, che ha sempre rappresentato un punto di riferimento per le decisioni strategiche della mafia attinenti tutta la Sicilia”.
Secondo la Direzione Investigativa Antimafia «la ricostituzione di questa struttura, dopo molti anni di inattività, non sembrerebbe auspicata da tutte le rappresentanze dei mandamenti, specie di quelli più attivi nella gestione delle attività economiche anche fuori dal territorio di competenza che, abituati ad agire quasi in autonomia, potrebbero soffrire la restrizione delle regole imposte dalla Commissione».
Una tendenza che però, rileva la Dia, che però è «ancora in evoluzione, proprio in relazione alla ricostituzione della Commissione provinciale».
Lo scenario che si delinea è comunque di una mafia, per come la conosciamo, in crisi perché «l’azione di contrasto delle Istituzioni, ha condotto alla sottrazione di consistenti patrimoni di origine illecita ed all’arresto di un elevato numero di affiliati e di capi a cui si è sommato il prolungato stato di detenzione di numerosi elementi di vertice e comunque dei boss più autorevoli, molti dei quali sottoposti al “carcere duro” e per questo anche dislocati in vari istituti penitenziari del territorio nazionale, circostanza che ha ulteriormente inciso sulla lunga mancanza di una effettiva struttura di vertice – la cosiddetta cupola – legittimata a prendere decisioni in nome di tutta Cosa nostra – a causa della detenzione dei suoi componenti e soprattutto del capo, Salvatore Riina, deceduto, come noto, il 17 novembre 2017».
Ma non bisogna cantare vittoria perché come rileva la Dia «le mafie traggono la “linfa vitale” necessaria a rigenerarsi in soggetti sempre più giovani, impiegati in professioni poco qualificate o senza occupazione». La mafia insomma investe sempre di più su «imprenditori e liberi professionisti», ma punta anche ad arruolare «operai comuni» e soggetti «in attesa di occupazione» nella fascia più giovane, quella tra i 18 e i 40 anni. Nell’analizzare il fenomeno la Dia sottolinea come le mafie, nonostante «la forte azione repressiva dello Stato», continuino ad avere una «capacità attrattiva» sulle giovani generazioni, non solo nel caso di figli di boss o di ragazzi provenienti da famiglie mafiose ma anche e soprattutto quando queste fanno parte di un bacino molto più grande di «reclutamento generale» dal quale «attingere manovalanza criminale». Un bacino che continua ad essere alimentato dalle difficili condizioni sociali del sud: il reclutamento, dice infatti la Dia, «non appare certamente disgiunto da una crisi sociale diffusa che non sembra offrire ai giovani valide alternative per una emancipazione dalla cultura mafiosa».
In sostanza, le mafie riducono «sensibilmente l’iniziativa imprenditoriale lecita, approfittano dello stato di bisogno di molti giovani e speculano sulla manodopera locale, dando l’effimera sensazione di distribuire un salario (sempre minimo per generare dipendenza e senza garantire i contributi previdenziali e quindi un futuro) ai giovani impiegati al suo servizio perché privi di alternative».
Concetti che i numeri esplicitano in maniera ancora più chiara: negli ultimi cinque anni non solo si sono registrati casi di “mafiosi” con un’età tra i 14 e i 18 anni, ma gli appartenenti alle cosche tra i 18 e i 40 anni hanno raggiunto numeri quasi uguali a quelli della fascia tra i 40 e i 65 anni e, in un caso, lo hanno anche superato (nel 2015 i denunciati e gli arrestati per 416 bis sono stati 5.437 di cui 2.792 tra i 18 e i 40 anni e 2.654 tra i 45 e i 60).
Tutte le indagini degli ultimi anni, spiegano gli investigatori, accanto ad una «modernizzazione» delle strategie criminali delle cosche, evidenziano non a caso «anche un sensibile abbassamento dell’età di iniziazione mafiosa». E portano alla luce anche un’altra serie di elementi su cui è necessario riflettere: la volontà delle nuove generazioni di affrancarsi dai vecchi boss, l’uso indiscriminato della violenza, l’ambizione di avere il giusto riconoscimento e di fare “carriera” all’interno delle organizzazioni. «Una trasformazione della cultura mafiosa – dice la Dia – che investe anche il linguaggio, al passo con i tempi. Non tanto rispetto ai contenuti delle comunicazioni, sempre criptiche, imperative e cariche di violenza, quanto piuttosto per gli strumenti social utilizzati, che consentono di aggregare velocemente gli affiliati al sodalizio e, allo stesso tempo, di rendere più difficoltosa l’intercettazione dei messaggi».
La scomparsa della Cupola ha sostanzialmente impedito a Matteo Messina Denaro di prendere le redini di Cosa nostra. Il superlatitante continuerebbe infattu a «ricoprire, sebbene con progressiva difficoltà, il duplice ruolo di capo del mandamento di Castelvetrano e di rappresentante provinciale di Cosa nostra». Quindi solo nel Trapanese. Nel rapporto viene ricordato che «l’organizzazione mafiosa trapanese sta subendo un’incessante e sempre più pressante attività di contrasto, prioritariamente finalizzata alla cattura del noto latitante Matteo Messina Denaro. Un’azione che passa innanzitutto per la disarticolazione del reticolo di protezione di cui lo stesso gode da decenni e che viene sviluppata sia sotto il profilo delle indagini giudiziarie, con i conseguenti numerosi provvedimenti restrittivi, sia sotto quello delle investigazioni preventive, realizzate con numerosi e consistenti provvedimenti di sequestro e confisca».
Nonostante tutto, «pur attraversando momenti di criticità, l’organizzazione criminale non presenta segnali di cambiamento organizzativi, strutturali o di leadership».