CATANIA – Ma sì, un bel “Vaffa” ai pregiudizi. Diretto, inequivocabile, stiloso. Nulla di volgare. Un movimento chiaro del braccio dell’attore che invita col sorriso smagliante chi ancora viaggia in questo Paese appesantito da preconcetti beceri di cercarsene un altro, di Paese, lontano, lontanissimo, disperso in chissà quale nebulosa.
Il messaggio dell’ultima fatica della regista di NeonTeatro, Monica Felloni, è facilmente decriptabile. Boxeurs è l’elogio della nobile arte. Non del pugilato. Della vita. Della nobile arte di vivere. Lo spettacolo è andato in scena sul palcoscenico del Centro culture contemporanee Zo di Catania. È il frutto della semina avvenuta durante Corpi Insoliti, il corso di teatro-danza in interazione con artisti con abilità diverse. Diverse abilità. Abilmente diversi.
I pugili di Boxeurs siamo tutti noi. Noi col caschetto degli sparring partner. Ognuno sparring partner del prossimo, per aiutarlo negli allenamenti, per aiutarlo a crescere, a migliorare, a migliorarsi. Ognuno sparring partner della vita, del destino, anche. Siamo lì, sul ring, e pariamo i colpi, li restituiamo. Quelli degli attori che hanno dato vita ad una performance da brividi sono i colpi efficaci dell’ironia, della riflessione, della determinazione, della coscienza di sé, del rispetto, del sorriso che deflagra potente come la commozione. Sono i colpi decisivi dell’emozione che fa vibrare le corde più sottili, sono i colpi dell’arte madre di chi non si arrende, di chi apprende che non ha motivo di arrendersi.
Si congiungono i punti distanti, in Boxeurs. Isolamento. Si annienta l’isolamento. Si scavano tunnel di seta rossa che annullano il senso di solitudine che avvilisce la contemporaneità. Il rosso domina la scena fin dall’inizio. Il rosso della tenacia. Il rosso della passione. Rosso il tunnel, rossi i caschetti, rosso il muro che sarà sfondato nel finale dalla carrozzina di una attrice che ha l’abilità di esprimere l’infinito con la sua abilità, la sua abilità diversa e per questo così unica. Unica. Unica come la voce che recita “La vita è sogno” di Calderon de La Barca. “Che cosa è la vita? Delirio. Che cosa è la vita? Illusione, un’ombra è, una finzione, e il maggiore dei beni è un’inezia; ché tutta la vita è sogno, e i sogni non sono che sogni”, fluttua nell’aria.
Mentre sullo sfondo le video scenografie mostrano corpi che diventanto installazioni artitistiche. Carrozzine sospese da chi le utilizza, chi non le utilizza diventato parte della carrozzina. Assemblaggi. Incastri. I pugili fanno volare via il caschetto e si incastrano sul palco, nello schermo. Via il caschetto, i capelli sono liberi di scuotersi, gli occhi di splendere, i sorrisi di sprigionarsi. Facciamo pare dello stesso puzzle, siamo tessere dello stesso, ricchissimo mosaico. Basterebbe amare “gli abbracci, la ricomposizione, la fine della mancanza di qualcuno” così come invita a fare Safran Foer; basterebbe ascoltarci quando si dorme, quando si sogna. Perché Dostoievskj ricordava che “con il cielo sopra di me uomini e donne con accanto gli altri pellegrini provenienti da ogni terra di ogni colore, classe, religione alti funzionari e mendicanti tutti, ma proprio tutti russavano nella stessa lingua”.
E lo facciamo ancora. E lo faremo ancora. E ancora. E ancora.