di Elisa Guccione
Foto Servizio Vincenzo Musumeci
BELPASSO – Cordiale e disponibile. Maglione blu, camicia azzurra, jeans e atteggiamento informale proprio come i tanti personaggi a cui ha dato vita in televisione, al teatro o al cinema. È Gene Gnocchi. Premiato in occasione della XXIX edizione del Premio Martoglio per il suo ultimo libro “Cosa fare a Faenza quando sei morto”, pubblicato da Bompiani. Lo incontriamo poco prima della serata di gala seduti comodamente nel salotto dell’elegante sala del “Circolo Operai di Belpasso” scoprendo alcuni aspetti della sua personalità.
“Cosa fare a Faenza quando sei morto” fa subito sorridere, ma non è semplicemente un libro ironico …
“In realtà è un testo molto disperato. È stato difficile scriverlo, perché racconta la vita di un uomo che non ce la fa più a vivere rincorso da notizie che sembrano tutte imperdibili e in realtà sono molto effimere. È un testo in cui inevitabilmente si ride che porta però alla riflessione, perché è quasi impossibile intravedere un barlume di speranza”.
Ci racconta come ha deciso di scrivere questa storia?
“Sentivo un certo disagio ed ho sentito l’esigenza di dare vita a questo progetto letterario. La scrittura per me è molto importante, ha un valore fondamentale nella mia vita e potrei definirla come la madre di tutte le cose che ho fatto e faccio. Scrivo sin dai tempi del liceo e alla base di ogni mio spettacolo, sketch televisivo o lavoro teatrale c’è sempre la scrittura. Gli ultimi tre anni, per me, non sono stati facili e attraverso questo libro ho in qualche modo descritto anche un pezzo della mia vita”.
Dopo la laurea in legge si divide tra la carriera forense e quella di frontman con il gruppo dei “Demodromici” fino ad arrivare al suo esordio allo Zelig di Milano. Come avviene questo passaggio?
“In modo molto naturale. Mi sono iscritto a legge, perché essendo il primo di sei fratelli avevo la necessità di fare una facoltà, soprattutto per rispetto di mio padre che con grande sacrifici ha permesso a tutti di studiare, che ci consentisse di trovare immediatamente un lavoro. La professione di avvocato mi stava un po’ stretta e volevo fare altro. Ho sempre avuto questa vena umoristica e ho assecondato questa mio modo di essere esprimendo quel sano relativismo che è alla base della mia comicità”.
Nella sua carriera spazia tra televisione, teatro, musica e cinema. Dove si sente più a suo agio?
“La dimensione ideale è, per me, quella teatrale ovvero il contatto con il pubblico”.
Lei ha fatto e continua a fare tanta televisione. Numerosi i successi, fra i tanti, come Emilio, Quelli che il calcio o Striscia la notizia. Com’è cambiato, secondo lei, il piccolo schermo rispetto ai suoi esordi?
“Ricordo che c’era la possibilità di fare tutto. Una trasmissione come Emilio oggi sarebbe impensabile. Negli anni ottanta c’era la voglia di sperimentare e di fare, perché c’erano gli autori che scrivevano e pensavano. Oggi si acquistano solo format e ci sono “scalettatori” che si preoccupano di piazzare il programma”.
Elisa Guccione
Foto Servizio Vincenzo Musumeci
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