PALERMO – L’ex capomafia Giovanni Brusca, il boss stragista condannato per decine di omicidi per per le stragi di Capaci e Via D’Amelio, non lascerà il carcere. Per la seconda volta – il primo no risale a due anni fa – i giudici del tribunale di Sorveglianza di Roma hanno respinto la domanda di accesso agli arresti domiciliari avanzata dai suoi legali. Nonostante da anni ormai Brusca collabori con la giustizia e abbia contribuito con le sue rivelazioni a decine di indagini, la strada per la libertà per lui è ancora lunga. In sette pagine i giudici romani ricordano il percorso giudiziario e carcerario dell’ex padrino di San Giuseppe Jato: dall’arresto, il 20 maggio del 1996, all’inizio della collaborazione coi magistrati. Poi i primi permessi premio, fino alle nuove accuse a suo carico nel 2010.
‘U Verrù, il maiale, era il suo soprannome in Cosa nostra. Figlio del boss Bernardo Brusca, cresciuto da sempre a ‘pane e mafià, l’ex capomafia ha decine di condanne all’ergastolo per omicidio e stragi. Fu lui a premere il telecomando che il 23 maggio del 1992 fece esplodere il tritolo che sventrò l’autostrada e uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Fu lui a decidere il sequestro e l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, sequestrato per indurre il padre a interrompere la collaborazione con la giustizia, poi strangolato e sciolto nell’acido. Pur avendo fatto una revisione critica delle sue azioni criminali, secondo i giudici Brusca «non ha compiuto quel percorso diretto alla manifestazione di un vero e proprio pentimento civile che è necessario per poter godere della detenzione domiciliare». «Nonostante abbia compiuto sforzo per chieder scusa alle vittime – spiegano – non ha ancora percorso il cammino dell’emenda verso di loro, mostrando ancora di non serbare nessun interesse a risarcirle anche simbolicamente». L’ex boss sottolineano i magistrati si è giustificato sostenendo di non voler mortificare le vittime chiedendo loro scusa. Una giustificazione che adduce un pudore «non credibile per chi si è macchiato di efferati delitti tra cui l’uccisione di bambini e che ha mietuto vittime in modo indiscriminato».
I magistrati ammettono il percorso compiuto in carcere dall’ex padrino di San Giuseppe Jato, che ha manifestato la volontà di dimostrare il suo cambiamento, è in contatto con un’associazione antimafia, ha fatto volontariato, nei colloqui con la psicologa «si sofferma sui propri misfatti senza riluttanza, rigetta letture giustificazioniste» e definisce Cosa nostra ‘lurida e schifosa». Tuttavia visto l’eccezionale spessore criminale, «il numero rilevantissimo di omicidi commessi», per avere gli arresti domiciliari non basta un mero ravvedimento ma serve «un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto tale da indurre un diverso modo di sentire e agire in armonia con i principi accolti dal consorzio civile». I giudici concludono ricordando che a proposito dei contatti dell’ex boss con le vittime della mafia «risulta solo l’incontro con Rita Borsellino, avvenuto su iniziativa di quest’ultima» e che non vi è stata però una richiesta di perdono né a lei né ai suoi familiari».